In questa riflessione Paolo Pasqualucci esorta tutti i fedeli cattolici a contribuire alla restaurazione della Chiesa, correndo amorevolmente in suo soccorso in tempi di così grande perigliosità. Per fare questo è necessario, tuttavia, studiare: la battaglia è e sarà soprattutto intellettuale, per fronteggiare le eresie più o meno scoperte e per correggere gli errori dilaganti. Solo così potranno essere salvati e la Chiesa e le anime dei fedeli.
Di fronte alla latitanza (e peggio) del clero, i fedeli devono dunque alzarsi in piedi e “chiedere che la Tradizione e la dottrina della Chiesa, la Messa e i sacramenti siano rispettati”. Ma “chiedere” come, con quali iniziative? Con quali strumenti? Come evitare che questo “chiedere” sia rapidamente inghiottito nelle paludi di qualche “catechesi biblica”? O dobbiamo intendere questo “appello al popolo” come un incitamento alla rivolta contro parroci e vescovi? No, di sicuro. Non c’è qui nessuno spirito di rivolta. L’intenzione è anzi quella di contribuire alla rinascita della Chiesa e in particolare a quella della sua Liturgia, mediante il dialogo, la discussione rispettosa, in modo civile. C’è comunque l’indignazione più che legittima per lo stato nel quale proprio i pastori (anche se non tutti) hanno ridotto la Chiesa. E forse anche la preoccupazione per la salvezza della propria anima, perché, quando il pastore non fa il suo dovere, le pecorelle sono sbranate dai lupi. Non bisogna comunque farsi illusioni sul modo nel quale siffatte richieste, se condotte con determinazione, verrebbero accolte. Chiedere il rispetto della Tradizione e della dottrina della Chiesa è oggi atto sommamente rivoluzionario agli occhi del mondo, i cui pseudovalori si sono installati nella Chiesa a partire dal Vaticano II. Chiedere di rispettare la Tradizione significa mettere in discussione il Vaticano II e quindi riproporre la Chiesa come “segno di contraddizione” nei confronti del mondo. E questo, la gran maggioranza non lo vuole, né nella Chiesa né nel mondo.
Anche di fronte alle richieste fatte nel modo più civile bisognerà aspettarsi l’indifferenza iniziale, poi il fastidio, infine l’ostilità, l’odio e la persecuzione. Ma una prospettiva del genere, che a mio avviso è la più realistica, non ci deve scoraggiare. Dobbiamo prepararci ugualmente al compito che la Provvidenza ha verosimilmente affidato alla nostra generazione, quello di battersi, per quanto modeste possano essere le sue forze, per il ristabilimento della fede e la restaurazione della Chiesa Cattolica. Prepariamoci dunque alla battaglia intellettuale, alla controversia, alla discussione, alla Disputa. Nel dialogo, sì: ma unicamente al fine di difendere e affermare le verità rivelate della nostra fede, per la Gloria di Dio e la conversione delle anime a Cristo. Bisogna pertanto studiare. Proprio così. Studiare, per essere in grado di confrontarsi, ognuno secondo le proprie possibilità, con i sofismi e le astuzie dell’avversario. Studiare, per essere in grado di porre a preti e suore (ché lo spirito del Concilio sembra penetrato largamente anche tra queste ultime) domande se occorre scomode sugli aspetti fondamentali della nostra fede.
Voglio fare subito un esempio di domanda scomoda. Paolo VI ha abolito il giuramento antimodernista istituito da san Pio X, cui era obbligato ogni sacerdote; giuramento che in sostanza obbligava moralmente ogni sacerdote a lottare con ogni forza contro tutti gli errori e le eresie. Questo giuramento non era forse una buona cosa? Perché quel Papa l’ha abolito? Che cosa ne pensano i sacerdoti attuali: era giusto abolirlo? E se lo era, perché? Perché era giusto eliminare una barriera istituita proprio per impedire la diffusione di errori ed eresie, che seducono le anime e le spingono in braccio all’Avversario? Ma per fare domande del genere bisogna prepararsi: sapere cos’è il modernismo, nei suoi concetti essenziali; sapere che cos’è l’eresia, agitata come spauracchio contro tutti coloro che tentano di discutere il Vaticano II; conoscere un po’ di storia della Chiesa; e così via.
(Paolo Pasqualucci, Cattolici, in alto i cuori!, pp. 153-155)