Il coraggio di Costantino e l’ignavia presente

Trascorso da poco tempo il centenario costantiniano, è utile tornare a riflettere su quell’epoca cruciale in cui la romanità, nella sua vastità e decadenza, ebbe a confrontarsi con un Cristianesimo sempre più diffuso e articolato. Non è pertanto frivolo posare lo sguardo sulla – tanto famosa quanto spesso banalizzata – conversione dell’imperatore Costantino, iniziando a sgombrare il campo dalla machiavellica abitudine di ricondurre ogni cosa a calcoli di puro interesse: come afferma – tra gli altri – A.H.M. Jones, ai tempi di Costantino la cristianità era ben lungi dall’essere trionfante e anzi, se mai avesse voluto seguire la via più incline al successo, egli avrebbe fatto il possibile per estirpare il nuovo elemento cristiano dall’Impero. Invece la Provvidenza volle servirsi di Costantino e questi si convertì, poggiandosi non su calcoli ma sulla fede nella vittoria di Cristo. Solo da Cristo, infatti, può derivare ogni altra vera vittoria, così che nemmeno la paura di risultare sconfitti dagli eventi poté frenare Costantino, che fu premiato già dalla storia.

Si può sostenere che i mutamenti sociali dei secoli III e IV furono un fattore importante del trionfo generale del cristianesimo nell’Impero. Quando nel 312 Costantino giocò il tutto per tutto sulla fede nel dio dei cristiani, secondo ogni calcolo umano egli si gettava in un’avventura davvero temeraria. Da ogni punto di vista i cristiani erano una piccola minoranza, soprattutto in Occidente, dove la lotta con Massenzio doveva aver luogo, e per lo più appartenevano a classi sociali, il cui peso era politicamente e militarmente trascurabile: erano manovali, negozianti, commercianti, decurioni di basso rango delle città e impiegati statali. L’esercito era in misura schiacciante pagano, pagano il Senato. Pagane erano anche, con ogni probabilità, la maggioranza dell’aristocrazia provinciale e municipale e la maggioranza dei gradi più alti dell’amministrazione, dato che coloro che li ricoprivano provenivano per lo più dall’esercito e dalla classe curiale. Ergendosi a campione del cristianesimo, Costantino non poteva illudersi di ottenere utili appoggi; poteva invece temere ragionevolmente di provocare una reazione in molti settori importanti, e ciò – sia detto tra parentesi – è a mio giudizio un importante indizio accidentale a favore della tesi che la conversione di Costantino non sia stata una mossa politica astutamente calcolata, ma invece, come egli stesso annunciò nel suo proclama pubblico, il frutto della genuina e ispirata, anche se rozza persuasione che l’Altissima Divinità al cui servizio era stato chiamato, fosse una dispensatura di vittoria più potente dei vecchi dèi.
(A.H.M. Jones, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, p. 39)

Le parole di Jones su Costantino possono oggi farci riflettere anche su un secondo aspetto. Di fronte alle sfide nuove e totali che la storia ci pone, noi agnelli del Buon Pastore possiamo e dobbiamo tornare a riporre fiducia nell’agire della Provvidenza, consapevoli che persino in mezzo ai marosi del presente e nelle eventuali sconfitte conterà soltanto mantenere la fede e difendere Cristo. Da una fede sentita nascono, spontaneamente, sia la sicurezza della presenza costante di Cristo nella storia sia l’azione pure volta a testimoniare ciò in cui crediamo, preponendolo a ogni bieco interesse personale, timore o rispetto umano. Cristo sarà giudice della nostra indifferenza, dei nostri colpevoli silenzi e della nostra comoda inoperosità.

Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat

Costantino

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