L’importanza della Festa di Ognissanti è, in questi tempi sempre, più in disgrazia anche a causa del diffondersi di consumistiche eresie (ben ci vorrebbe un novello Seneca e una novella Apokolokyntosis per sbeffeggiare la diffusa mitizzazione delle zucche e degli zucconi). Per non perdere la cura e la precisione con cui la Santa Romana Chiesa guidava per mano i suoi fedeli all’interno della santificazione delle Feste e, quindi, di tutta la loro vita, propongo le note storiche e liturgiche scritte dal beato Ildefonso Schuster per la solennità primonovembrina, grazie alle quali possiamo ancora contemplare le bellezze del rito vetus ma mai tramontato, troppo spesso inavvicinato nella insignificanza moderna.
La Festa di tutti i Santi
L’autunno inoltrato, il cader delle foglie ingiallite, il lungo cielo delle domeniche dopo Pentecoste con quel senso di mesta stanchezza che ne pervade l’estrema serie, richiamano l’animo ai pensieri solenni dell’eternità e del mondo d’oltre tomba, al quale i giorni e gli anni che passano ci avvicinano. Il Veggente di Patmos viene perciò quasi ad anticipare la chiusura di questo prolisso ciclo, nel quale è simboleggiata l’aspra vita della Chiesa militante: egli oggi ci solleva un lembo di velo, e ci mostra la Chiesa trionfante in tutto lo splendore della sua gloria.
Al principio di questo periodo liturgico che dalla Pentecoste va fino all’Avvento, si diceva che lo Spirito Paraclito avrebbe glorificato Gesù: Ille me clarificabit. Oggi si vede come egli ha mantenuto il suo impegno, diffondendo sul corpo mistico del Salvatore tanta santità, che poi è stata germe di tanta gloria.
Una festa collettiva di tutti i Martiri in relazione col trionfo Pasquale del Redentore, apparisce nella Siria già nel IV secolo. I Bizantini invece la celebravano la domenica successiva alla Pentecoste, uso che un tempo venne introdotto anche in Roma, come ne fa fede il più antico Comes pubblicato dal Morin dal noto Codice di Würzburg: Dominica in natale Sanctorum.
Questa festa trapiantata sulle rive del Tevere da Bisanzio, ebbe tuttavia scarsa durata. Nella settimana dopo Pentecoste, un’antica tradizione imponeva ai Romani il solenne digiuno dei Tre Tempi, colla gran veglia domenicale a san Pietro. Era impossibile, quindi, dopo tanta fatica notturna, celebrare ancora in quella stessa mattina la solennità di tutti i Santi; rinunciando perciò all’uso bizantino, bisognò contentarsi della festa del 13 maggio in onore dei Martiri, già istituita da Bonifacio IV quando consacrò il Pantheon al culto cristiano.
Il concetto tuttavia d’una solennità collettiva di tutti i Santi, non semplicemente dei Martiri, si fece sempre più strada. Mentre in Oriente gli Iconoclasti distruggevano sacre Iconi e Reliquie, ed in Italia, nello stesso Lazio, i cemeteri dei Martiri giacevano in abbandono a cagione delle continue scorrerie dei Langobardi per la campagna di Roma, Gregorio III eresse in san Pietro un oratorio espiatorio in onore di tutti i Santi, così Martiri che Confessori, morti per tutto l’orbe. Un coro di monaci era addetto all’ufficiatura liturgica di quel santuario Vaticano; ed ogni giorno anzi, nella messa si faceva una speciale commemorazione di tutti i Santi di cui in quel dì le varie chiese della cattolicità celebrassero il Natale.
Come Roma si sia indotta a festeggiare alle calende di novembre la festa di tutti i Santi, non è del tutto chiaro. Il cambiamento avvenne sotto Gregorio IV, (827-844) e vi entrò anche l’opera di Lodovico il Pio e dell’episcopato franco; ma non è interamente provato che l’iniziativa partisse dal Papa, anzichè dall’Imperatore. Sisto IV poi, aggiunse alla festa lo strascico d’una ottava.
(Card. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, vol. IX, pp. 75-76)
Ed ecco l’analisi minuziosa del proprio della Missa:
L’introito Gaudeamus… sub honore Sanctorum omnium, è l’antico, assegnato originariamente alla festa di sant’Agata il 4 febbraio.
In altri giorni la liturgia celebra la memoria d’uno o più santi particolari. Oggi invece il Signore multiplicavit gentem et magnificavit laetitiam, come vuole Isaia; cosicchè la glorificazione di Cristo e della Chiesa in questo giorno è completa.
Lo Spirito del Signore, al pari di quella misteriosa unzione d’unguento aromatico descritta dal Salmista, si è diffuso sull’intero corpo mistico di Cristo, santificando ogni suo benchè umile membro, e disponendolo per tale mezzo ad una sublime gloria.
Sono gli Apostoli, i Martiri, i membri della gerarchia ecclesiastica, il laicato cattolico, i laboriosi operai, perfino i poveri schiavi quelli sui quali è disceso il Paraclito e li ha sublimati ad una santità eroica. Ecco il bel concetto espresso oggi coll’antifona d’introito.
La prima colletta già ritrovasi nel Gelasiano, ed è assegnata ad una festa collettiva di tutti gli Apostoli, da celebrarsi entro l’ottava dei santi Pietro e Paolo.
Preghiera. – «O Dio, tu che ci concedi di venerare con un’unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi (Apostoli); fa sì che oggi, moltiplicandosi per noi gl’intercessori, tu pure sii più pronto a riversare su di noi la piena delle tue misericordie».
La prima lezione – e questo è assai significativo per l’origine della festa – è come per la dedica del Pantheon, il 13 maggio (Apoc. c. VIII, 2-12). Il Veggente di Patmos scorge aperta innanzi a sé una gran porta, attraverso la quale entra in cielo una sterminata moltitudine. Non sono solamente i centoquarantaquattromila figli predestinati di Abramo, ma una turbam magnam d’ogni età, sesso, tempo e condizione di vita, che entrano in paradiso attraverso Gesù che n’è la porta. Non è dunque più tanto difficile il salvarsi, dal momento che lo stesso san Giovanni scrive, che egli non è neppure arrivato a contare l’interminabile numero degli eletti.
V’è però una condizione essenziale. Quelli che giungono a salvezza, recano tutti in fronte un suggello, che è come il carattere di appartenenza o conformità coll’Eterno Padre e col suo Cristo. Questo suggello, giusta Ezechiele, ha la forma d’un Tau, e vien impresso sulla fronte di coloro che piangono e gemono. Signa Tau super frontem virorum gementium et dolentium. Che vuol dir ciò? Ce lo spiega l’Apostolo, quando c’insegna che «sicut socii passionum estis, et consolationis eritis»; che cioè, la futura gloria sarà in proporzione della parte che abbiamo presa adesso nel renderci solidari del sacrificio di Gesù.
Il graduale Timete Dominum, è come il dì 8 agosto per san Ciriaco. Il verso alleluiatico prelude quasi alla lezione Evangelica. Gesù invita a sé tutti coloro che sudano nel portar la croce, e promette di sollevarli dalle loro pene.
«Allel. (Matt. XI, 28). Venite a me voi tutti che faticate e siete oppressi ed io vi darò sollievo».
Il giorno in cui la Chiesa festeggia insieme tutti i Santi, la lezione Evangelica non può essere che quella delle beatitudini (Matt. c. V, 1-12). Tutti vi sono compresi, ed ognuno vi consegue una benedizione speciale. Ad ottenerla, non si richiedono illustri natali, grande censo, speciale abilità o scienza; al contrario, chi meno ha del proprio, più consegue del dono celeste, e perciò la prima benedizione è assegnata agli umili e poveri di spirito, quelli cioè che per acquistar Cristo, si sono spogliati di se medesimi, e si sono fatti piccoli, come il pargolo Evangelico preposto da Gesù per modello ai suoi discepoli.
L’antifona per l’offertorio, splendida nella sua ricca melodia gregoriana che ricorda quella dello Stetit Angelus, è come per la festa di sant’Ippolito il 13 agosto.
I persecutori credevano d’aver in loro mano la vita dei martiri e dei santi. No; essa è in mano di Dio. Gli empi sono semplicemente degli strumenti di cui egli si serve per forgiare tranquillamente il suo capolavoro. Cosicchè la frenesia, la rabbia furente, sono soltanto dalla parte dei persecutori, veri servi della gleba; tanto l’artefice, che il suo vivente capolavoro, assorti nell’ideale che proseguono, sono immersi invece nella più profonda pace, quella appunto che si richiede per tutte le opere ardue e di genio.
La preghiera che serve di preludio all’anafora, è la seguente: «Eccoti, o Signore, quest’oblazione, qual pegno della nostra devozione: tu deh! l’accogli in onore di tutti i tuoi santi, e fa sì che anche a noi sia salutare».
I Sacramentari medievali oggi assegnano questo prefazio: «…Vere dignum… aeterne Deus: et clementiam tuam suppliciter obsecrare, ut cum exsultantibus Sanctis in caelestis regni cubilibus gaudia nostra subiungas. Et quos virtutis imitatione non possumus sequi, debitae venerationis contingamus affectu, per Christum etc.».
L’antifona per la Comunione è tratta dall’odierno Vangelo delle Beatitudini. Il mondo con sete insaziabile anela a star bene: ecco; la stessa eterna Verità insegna agli uomini le vie di questa felicità, quando sull’alto d’una montagna bandisce come il decalogo della felicità. Beati son quelli che hanno puro l’occhio del cuore, perché discerneranno Dio; beati quei che conserveranno inalterata pace, giacchè in questo si faranno conoscere per veri figliuoli di Dio, autore della pace; beati quei che a motivo della virtù sostengono persecuzione, perché in cambio della gioia e della vita di qua, conseguiranno di là la vita eterna e gioia imperitura.
Ecco la colletta di ringraziamento: «Fa, o Signore, che mentre il tuo fedel popolo festeggia la memoria di tutti i tuoi Santi, questi lo assistano in Cielo colla loro incessante protezione».
Rileviamo oggi questa profonda parola colla quale la liturgia designa la Chiesa militante: il popolo fedele. Il popolo cioè che procede innanzi nel suo cammino all’eternità, coll’occhio e col raggio della fede. Qual’è il merito di questa fede cattolica, creduta, ed incessantemente vissuta, senza della quale nessuno può arrogarsi con lealtà il titolo di fedele? Fides quid tibi praestat? – domanda ancora oggi la Chiesa ai catecumeni. – E questi rispondono: vitam aeternam.
(Card. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, vol. IX, pp. 76-79)