Guareschi e il sano umorismo

Oggigiorno si insegue incessantemente la risata, ma quasi sempre in modo forzoso, affettato e malinconico. Si cade, troppo spesso, in un’affannosa brama di divertimento spiccio, che possa nascondere in qualche modo il vuoto totale che attanaglia e riempie l’uomo moderno. Ne risulta un umorismo malato, un ridere sciocco e volgare, in un contesto che rimane costantemente identico nella propria inconsistenza. Invece, la carica vincente della saga di Don Camillo di Guareschi nasce da un diverso punto di vista sul mondo, che a sua volta nasce da un diverso sentire, da una specifica Fede. Ci aiuta a entrare in profondità nell’orizzonte guareschiano il duo Gnocchi&Palmaro, capace di illustrare con semplicità la fondamentale differenza tra l’umorismo relativista di un Pirandello e quello caritatevolmente cristiano di Guareschi.

Guareschi è terapeutico. Nel senso che appartiene a quella esigua famiglia di scrittori che fanno bene alla salute dei lettori. Certi romanzi, anche di pregio – perfino alcuni grandi capolavori della letteratura mondiale – rattristano, mettono di cattivo umore, fanno venire il mal di stomaco, addormentano, infastidiscono. Con Guareschi è diverso. Il suo marchio di fabbrica è garanzia di una lettura fresca, rasserenante, seria e insieme allegra, pensosa e insieme divertente. Guareschi vuole dire sorriso.
La ragione di questa piccola magia è presto detta: Guareschi rende migliori i suoi lettori. Li afferra all’inizio della pagina con la sua abilità narrativa, e li restituisce alla fine del racconto, magari un po’ più commossi, di solito un po’ più allegri, ma sempre con uno sguardo nuovo sulla vita di tutti i giorni. Uno sguardo buono, che comincia a vedere nelle cose e dietro alle cose l’esistenza di un destino lieto. Qui c’è qualche cosa di molto più grande e di molto più difficile dell’arte di saper far ridere. Alcuni autori sanno inventarsi situazioni o personaggi che muovono il pubblico alla risata. È un’arte anche questa, ed è un’arte benedetta. Ma in Guareschi la faccenda è diversa. Perché nella sua lettura il meccanismo umoristico segue un movimento capovolto rispetto a quello abituale. Nel senso che l’umorismo è di solito uno strumento di elegante evasione dalla realtà: si prende in considerazione uno spicchio di mondo, se ne mette in luce l’aspetto paradossale, grottesco, ridicolo. A quel punto lo scrittore assesta abilmente la battuta graffiante, enfatizza la contraddizione fra come stanno le cose e come dovrebbero essere nelle attese della ragione umana. E da qui nasce il divertimento, il sorriso, e perfino la risata grassa.
Ma in questo meccanismo si nasconde un problema irrisolto: rimane sempre una sottile amarezza di fondo, un’inquietudine che non si dissolve, e che si deposita, appiccicosa, dentro l’anima del lettore. Perché questo genere di umorismo – del quale è maestro, ad esempio, Luigi Pirandello – non ama la realtà. Non la abbraccia, ma al contrario la respinge. Ride del mondo e in qualche modo desidera allontanarsene, perché la fuga è l’unica speranza, l’unica possibilità che è data all’uomo per godere un quarto d’ora di tranquillità. Si ride per non pensare. O per non vedere come le cose stanno veramente. Perché il mondo è, semplicemente, insopportabile.
In Guareschi accade esattamente il contrario: il suo umorismo nasce da un movimento verso la realtà, che abbraccia il mondo e lo ama. E così, Giovannino rende poco alla volta, magicamente, più amabile la vita ordinaria anche agli occhi del lettore. È qui il capolavoro assoluto di Guareschi: riuscire a prendere in mano l’ordinario – che è invero spesso triste, anonimo, perfino assurdo- e restituircelo sotto una nuova luce, straordinaria. Guareschi realizza in letteratura quel “ritorno al reale” di cui parla il filosofo contadino Gustave Thibon.
(Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro, Giovannino Guareschi. C’era una volta il padre di Don Camillo e Peppone, pp. 96-97)

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Don Camillo e la verità che incute paura

Dopo l’uscita del suo giornaletto, don Camillo si trovò solo.
«Mi pare di essere in mezzo al deserto» confidò al Cristo. «E non cambia niente anche quando ho intorno cento persone, perché essi sono lì, a mezzo metro da me, ma fra me e loro c’è un cristallo spesso mezzo metro. Sento le loro voci, ma è come se venissero da un altro mondo.»
«È la paura» rispose il Cristo. «Essi hanno paura di te.»
«Di me?»
«Di te, don Camillo. E ti odiano. Vivevano caldi e tranquilli dentro il bozzolo della loro viltà. Sapevano la verità, ma nessuno poteva obbligarli a sapere, perché nessuno aveva detto pubblicamente queste verità. Tu hai agito e parlato in modo tale che essi ora debbono saperla la verità. E perciò ti odiano e hanno paura di te. Tu vedi i fratelli che, quali pecore, obbediscono agli ordini del tiranno e gridi: “Svegliatevi dal vostro letargo, guardate le genti libere; confrontate la vostra vita con quella delle genti libere!”. Ed essi non ti saranno riconoscenti, ma ti odieranno e, se potranno, ti uccideranno, perché tu li costringi ad accorgersi di quello che essi già sapevano ma, per amor di quieto vivere, fingevano di non sapere. Essi hanno occhi ma non vogliono vedere. Essi hanno orecchie ma non vogliono sentire. Sono vili ma non vogliono che nessuno dica loro che sono vili. Tu hai resa pubblica una ingiustizia e hai messo la gente in questo grave dilemma: se taci tu accetti il sopruso, se non lo accetti devi parlare. Era tanto più comodo poterlo ignorare, il sopruso. Ti stupisce tutto questo?»
Don Camillo allargò le braccia.
«No» disse. «Mi stupirei se non sapessi che, per aver voluto dire la verità agli uomini, Voi siete stato messo in croce. Me ne dolgo semplicemente.»
(Giovannino Guareschi, Mondo piccolo, La paura continua, pp. 273-274)

Don Camillo e il Cristo

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I cristiani anima del mondo: l’A Diogneto

Leggere ogni tanto qualche scritto della prima o primissima età cristiana si rivela un’attività estremamente utile, soprattutto perché permette di cogliere con immediatezza ed evidenza la specificità e la forza dell’annuncio di Cristo, spezzando gli intorpidimenti che hanno smussato la sua portata rivoluzionaria e totalizzante nei tristi tempi contemporanei. Si torna così all’essenza e alla coerenza, saltando d’un balzo ogni possibile rispetto umano, perché il cristiano è e deve sempre essere segno di contraddizione, non insipido buonista: dalla persecuzione e dal martirio trarrà prova della propria coerenza.

I cristiani infatti non si distinguono dagli altri uomini né per regione né per linguaggio né per abito. Non abitano infatti città proprie né usano qualche dialetto inusitato né conducono una vita fuori del consueto. La loro dottrina non è certo un ritrovato dovuto a invenzioni e speculazioni di uomini intriganti; e neppure essi si atteggiano a sostenitori di una dottrina umana, come altri fanno. Abitano città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e ne seguono gli usi nel vestito, nel cibo, nel tenore consueto del resto dell’esistenza, ma manifestano la condizione mirabile e realmente paradossale della loro cittadinanza.
Abitano nella propria patria, ma da forestieri. Prendono parte a tutto come cittadini e sopportano tutto come stranieri: ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti, generano figli, ma non espongono i loro neonati. Partecipano tutti di una stessa mensa, ma non di uno stesso letto.
Si trovano nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma vivono da cittadini del cielo. Ubbidiscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono oltre le leggi.
Amano tutti, ma da tutti sono perseguitati. Sono misconosciuti e condannati; vengono messi a morte, ma ottengono così la vita. Sono poveri, e arricchiscono molti; mancano di tutto, ma di tutto sovrabbondano. Vengono disonorati, ma col disonore trovano la gloria; vengono bestemmiati, e sono proclamati giusti. Sono insultati, e benedicono; vengono vilipesi, ed essi onorano. Operano il bene e vengono castigati come malfattori; castigati, gioiscono come chi riceve la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci, perseguitati: ma coloro che li odiano non sanno dire la causa della loro inimicizia.
(A Diogneto 5)

L’anonimo autore di questo interessante trattato, attribuito da Henri Irénée Marrou a Panteno e collocato tra gli anni 190-200, si spinge anche oltre, affermando che i Cristiani sono l’anima del mondo, con un’immagine che ha avuto – nel passato, certo non oggi – grande fortuna.

In una parola, ciò che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo. L’anima è sparsa in tutte le membra del corpo, e i cristiani nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo: e i cristiani abitano nel corpo, ma non sono del mondo. L’anima, realtà invisibile, è custodita nel corpo visibile; anche i cristiani sono conosciuti in quanto sono nel mondo, ma rimane invisibile la loro religione. La carne odia l’anima e le fa guerra, senza averne avuto alcun torto, perché essa le impedisce di darsi ai piaceri; e il mondo odia i cristiani, senza averne avuto alcun torto, perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le sue membra; e i cristiani amano quelli che li odiano. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; e i cristiani sono tenuti nel mondo come in una prigione, ma sostengono il mondo. L’anima dimora immortale in una tenda mortale e i cristiani abitano come estranei tra le cose corruttibili, ma attendono l’incorruttibilità nei cieli. Mortificata nei cibi e nelle bevande, l’anima diventa migliore: e i cristiani, ogni giorno maltrattati, si moltiplicano ulteriormente. Dio ha loro assegnato un posto tale che non è loro lecito tirarsi indietro.
(A Diogneto 6)

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Il coraggio di Costantino e l’ignavia presente

Trascorso da poco tempo il centenario costantiniano, è utile tornare a riflettere su quell’epoca cruciale in cui la romanità, nella sua vastità e decadenza, ebbe a confrontarsi con un Cristianesimo sempre più diffuso e articolato. Non è pertanto frivolo posare lo sguardo sulla – tanto famosa quanto spesso banalizzata – conversione dell’imperatore Costantino, iniziando a sgombrare il campo dalla machiavellica abitudine di ricondurre ogni cosa a calcoli di puro interesse: come afferma – tra gli altri – A.H.M. Jones, ai tempi di Costantino la cristianità era ben lungi dall’essere trionfante e anzi, se mai avesse voluto seguire la via più incline al successo, egli avrebbe fatto il possibile per estirpare il nuovo elemento cristiano dall’Impero. Invece la Provvidenza volle servirsi di Costantino e questi si convertì, poggiandosi non su calcoli ma sulla fede nella vittoria di Cristo. Solo da Cristo, infatti, può derivare ogni altra vera vittoria, così che nemmeno la paura di risultare sconfitti dagli eventi poté frenare Costantino, che fu premiato già dalla storia.

Si può sostenere che i mutamenti sociali dei secoli III e IV furono un fattore importante del trionfo generale del cristianesimo nell’Impero. Quando nel 312 Costantino giocò il tutto per tutto sulla fede nel dio dei cristiani, secondo ogni calcolo umano egli si gettava in un’avventura davvero temeraria. Da ogni punto di vista i cristiani erano una piccola minoranza, soprattutto in Occidente, dove la lotta con Massenzio doveva aver luogo, e per lo più appartenevano a classi sociali, il cui peso era politicamente e militarmente trascurabile: erano manovali, negozianti, commercianti, decurioni di basso rango delle città e impiegati statali. L’esercito era in misura schiacciante pagano, pagano il Senato. Pagane erano anche, con ogni probabilità, la maggioranza dell’aristocrazia provinciale e municipale e la maggioranza dei gradi più alti dell’amministrazione, dato che coloro che li ricoprivano provenivano per lo più dall’esercito e dalla classe curiale. Ergendosi a campione del cristianesimo, Costantino non poteva illudersi di ottenere utili appoggi; poteva invece temere ragionevolmente di provocare una reazione in molti settori importanti, e ciò – sia detto tra parentesi – è a mio giudizio un importante indizio accidentale a favore della tesi che la conversione di Costantino non sia stata una mossa politica astutamente calcolata, ma invece, come egli stesso annunciò nel suo proclama pubblico, il frutto della genuina e ispirata, anche se rozza persuasione che l’Altissima Divinità al cui servizio era stato chiamato, fosse una dispensatura di vittoria più potente dei vecchi dèi.
(A.H.M. Jones, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, p. 39)

Le parole di Jones su Costantino possono oggi farci riflettere anche su un secondo aspetto. Di fronte alle sfide nuove e totali che la storia ci pone, noi agnelli del Buon Pastore possiamo e dobbiamo tornare a riporre fiducia nell’agire della Provvidenza, consapevoli che persino in mezzo ai marosi del presente e nelle eventuali sconfitte conterà soltanto mantenere la fede e difendere Cristo. Da una fede sentita nascono, spontaneamente, sia la sicurezza della presenza costante di Cristo nella storia sia l’azione pure volta a testimoniare ciò in cui crediamo, preponendolo a ogni bieco interesse personale, timore o rispetto umano. Cristo sarà giudice della nostra indifferenza, dei nostri colpevoli silenzi e della nostra comoda inoperosità.

Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat

Costantino

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Giovanni da Kety, professore e Santo

Nel mondo contemporaneo sembra quasi impossibile immaginare uno degli attuali intellettuali protagonisti delle Università ergersi come modello di santità, eppure la Chiesa cattolica, nella sua prodigiosa parabola storica, ha conosciuto diversi personaggi di primissimo piano che potrebbero favorire – o, almeno, esortare – l’ambizione di coniugare scienza e fede. Si pensi al beato Contardo Ferrini, gloria dell’Ateneo pavese e particolarmente venerato in Lombardia, o al Santo venerato correntemente il 23 Dicembre, San Giovanni da Kenty (Jan Kanty), un insegnante polacco del XV sec. assurto a tale gloria degli altari da essere venerato quale patrono della Polonia e della Lituania. Eccone la significativa presentazione che ne diede il beato Ildefondo Schuster, quando la memoria liturgica di questo San Giovanni cadeva ancora il 20 Ottobre:


Giovanni da Kenty morì il 24 dicembre 1473, ma la sua festa da Clemente XIV fu assegnata a questo giorno [: 20 Ottobre].
Il Santo nellagiografia cattolica si distingue per un carattere tutto particolare, che ancora oggi lo rende, dirò così, d’attualità, e fa sì che ben si adatti all’imitazione dei nostri fedeli. Egli fu parroco, missionario; ma quello che più spicca in lui, si è l’ufficio altresì di professore santo, che ricoprì a lungo nell’università di Cracovia. Molti ritengono che la posizione dell’insegnante universitario, inebbriato della voluttà del proprio sapere, sia la più inadatta alla professione della perfezione cristiana. Giovanni da Kenty ha sfatato questo pregiudizio, ed ha mostrato che non la boria, ma l’ascendente d’una vita santa rende immensamente efficace l’insegnamento del maestro sull’animo della gioventù studiosa.
L’Eterna Città ammirò più volte la pietà del nostro santo Professore, quando se ne stava prostrato per lunghe ore ai sepolcri dei Principi degli Apostoli e dei Martiri. Interrogato una volta da alcuno, perchè mai si accingesse ad un viaggio così pericoloso, dal momento che non intendeva di procurarsi presso la Curia Romana nè benefici ecclesiastici, nè onori, rispose che lo faceva per scontare in questa maniera il suo purgatorio, e per guadagnare le numerose indulgenze concesse a chi visita le basiliche degli Apostoli nella Città Eterna.
Giovanni da Kenty, che in vita si era distinto per una generosissima carità verso i poverelli, dopo morte venne illustrato da Dio da un gran numero di miracoli. La [sua] messa è tutto un elogio di questa generosità del santo Professore.
(Card. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, vol. IX, pp. 47-48)

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La Festa di tutti i Santi: note storiche e liturgiche

L’importanza della Festa di Ognissanti è, in questi tempi sempre, più in disgrazia anche a causa del diffondersi di consumistiche eresie (ben ci vorrebbe un novello Seneca e una novella Apokolokyntosis per sbeffeggiare la diffusa mitizzazione delle zucche e degli zucconi). Per non perdere la cura e la precisione con cui la Santa Romana Chiesa guidava per mano i suoi fedeli all’interno della santificazione delle Feste e, quindi, di tutta la loro vita, propongo le note storiche e liturgiche scritte dal beato Ildefonso Schuster per la solennità primonovembrina, grazie alle quali possiamo ancora contemplare le bellezze del rito vetus ma mai tramontato, troppo spesso inavvicinato nella insignificanza moderna.

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La Festa di tutti i Santi
L’autunno inoltrato, il cader delle foglie ingiallite, il lungo cielo delle domeniche dopo Pentecoste con quel senso di mesta stanchezza che ne pervade l’estrema serie, richiamano l’animo ai pensieri solenni dell’eternità e del mondo d’oltre tomba, al quale i giorni e gli anni che passano ci avvicinano. Il Veggente di Patmos viene perciò quasi ad anticipare la chiusura di questo prolisso ciclo, nel quale è simboleggiata l’aspra vita della Chiesa militante: egli oggi ci solleva un lembo di velo, e ci mostra la Chiesa trionfante in tutto lo splendore della sua gloria.
Al principio di questo periodo liturgico che dalla Pentecoste va fino all’Avvento, si diceva che lo Spirito Paraclito avrebbe glorificato Gesù: Ille me clarificabit. Oggi si vede come egli ha mantenuto il suo impegno, diffondendo sul corpo mistico del Salvatore tanta santità, che poi è stata germe di tanta gloria.
Una festa collettiva di tutti i Martiri in relazione col trionfo Pasquale del Redentore, apparisce nella Siria già nel IV secolo. I Bizantini invece la celebravano la domenica successiva alla Pentecoste, uso che un tempo venne introdotto anche in Roma, come ne fa fede il più antico Comes pubblicato dal Morin dal noto Codice di Würzburg: Dominica in natale Sanctorum.
Questa festa trapiantata sulle rive del Tevere da Bisanzio, ebbe tuttavia scarsa durata. Nella settimana dopo Pentecoste, un’antica tradizione imponeva ai Romani il solenne digiuno dei Tre Tempi, colla gran veglia domenicale a san Pietro. Era impossibile, quindi, dopo tanta fatica notturna, celebrare ancora in quella stessa mattina la solennità di tutti i Santi; rinunciando perciò all’uso bizantino, bisognò contentarsi della festa del 13 maggio in onore dei Martiri, già istituita da Bonifacio IV quando consacrò il Pantheon al culto cristiano.
Il concetto tuttavia d’una solennità collettiva di tutti i Santi, non semplicemente dei Martiri, si fece sempre più strada. Mentre in Oriente gli Iconoclasti distruggevano sacre Iconi e Reliquie, ed in Italia, nello stesso Lazio, i cemeteri dei Martiri giacevano in abbandono a cagione delle continue scorrerie dei Langobardi per la campagna di Roma, Gregorio III eresse in san Pietro un oratorio espiatorio in onore di tutti i Santi, così Martiri che Confessori, morti per tutto l’orbe. Un coro di monaci era addetto all’ufficiatura liturgica di quel santuario Vaticano; ed ogni giorno anzi, nella messa si faceva una speciale commemorazione di tutti i Santi di cui in quel dì le varie chiese della cattolicità celebrassero il Natale.
Come Roma si sia indotta a festeggiare alle calende di novembre la festa di tutti i Santi, non è del tutto chiaro. Il cambiamento avvenne sotto Gregorio IV, (827-844) e vi entrò anche l’opera di Lodovico il Pio e dell’episcopato franco; ma non è interamente provato che l’iniziativa partisse dal Papa, anzichè dall’Imperatore. Sisto IV poi, aggiunse alla festa lo strascico d’una ottava.

(Card. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, vol. IX, pp. 75-76)

Ed ecco l’analisi minuziosa del proprio della Missa:


L’introito Gaudeamus… sub honore Sanctorum omnium, è l’antico, assegnato originariamente alla festa di sant’Agata il 4 febbraio.
In altri giorni la liturgia celebra la memoria d’uno o più santi particolari. Oggi invece il Signore multiplicavit gentem et magnificavit laetitiam, come vuole Isaia; cosicchè la glorificazione di Cristo e della Chiesa in questo giorno è completa.
Lo Spirito del Signore, al pari di quella misteriosa unzione d’unguento aromatico descritta dal Salmista, si è diffuso sull’intero corpo mistico di Cristo, santificando ogni suo benchè umile membro, e disponendolo per tale mezzo ad una sublime gloria.
Sono gli Apostoli, i Martiri, i membri della gerarchia ecclesiastica, il laicato cattolico, i laboriosi operai, perfino i poveri schiavi quelli sui quali è disceso il Paraclito e li ha sublimati ad una santità eroica. Ecco il bel concetto espresso oggi coll’antifona d’introito.
La prima colletta già ritrovasi nel Gelasiano, ed è assegnata ad una festa collettiva di tutti gli Apostoli, da celebrarsi entro l’ottava dei santi Pietro e Paolo.
Preghiera. – «O Dio, tu che ci concedi di venerare con un’unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi (Apostoli); fa sì che oggi, moltiplicandosi per noi gl’intercessori, tu pure sii più pronto a riversare su di noi la piena delle tue misericordie».
La prima lezione – e questo è assai significativo per l’origine della festa – è come per la dedica del Pantheon, il 13 maggio (Apoc. c. VIII, 2-12). Il Veggente di Patmos scorge aperta innanzi a sé una gran porta, attraverso la quale entra in cielo una sterminata moltitudine. Non sono solamente i centoquarantaquattromila figli predestinati di Abramo, ma una turbam magnam d’ogni età, sesso, tempo e condizione di vita, che entrano in paradiso attraverso Gesù che n’è la porta. Non è dunque più tanto difficile il salvarsi, dal momento che lo stesso san Giovanni scrive, che egli non è neppure arrivato a contare l’interminabile numero degli eletti.
V’è però una condizione essenziale. Quelli che giungono a salvezza, recano tutti in fronte un suggello, che è come il carattere di appartenenza o conformità coll’Eterno Padre e col suo Cristo. Questo suggello, giusta Ezechiele, ha la forma d’un Tau, e vien impresso sulla fronte di coloro che piangono e gemono. Signa Tau super frontem virorum gementium et dolentium. Che vuol dir ciò? Ce lo spiega l’Apostolo, quando c’insegna che «sicut socii passionum estis, et consolationis eritis»; che cioè, la futura gloria sarà in proporzione della parte che abbiamo presa adesso nel renderci solidari del sacrificio di Gesù.
Il graduale Timete Dominum, è come il dì 8 agosto per san Ciriaco. Il verso alleluiatico prelude quasi alla lezione Evangelica. Gesù invita a sé tutti coloro che sudano nel portar la croce, e promette di sollevarli dalle loro pene.
«Allel. (Matt. XI, 28). Venite a me voi tutti che faticate e siete oppressi ed io vi darò sollievo».
Il giorno in cui la Chiesa festeggia insieme tutti i Santi, la lezione Evangelica non può essere che quella delle beatitudini (Matt. c. V, 1-12). Tutti vi sono compresi, ed ognuno vi consegue una benedizione speciale. Ad ottenerla, non si richiedono illustri natali, grande censo, speciale abilità o scienza; al contrario, chi meno ha del proprio, più consegue del dono celeste, e perciò la prima benedizione è assegnata agli umili e poveri di spirito, quelli cioè che per acquistar Cristo, si sono spogliati di se medesimi, e si sono fatti piccoli, come il pargolo Evangelico preposto da Gesù per modello ai suoi discepoli.
L’antifona per l’offertorio, splendida nella sua ricca melodia gregoriana che ricorda quella dello Stetit Angelus, è come per la festa di sant’Ippolito il 13 agosto.
I persecutori credevano d’aver in loro mano la vita dei martiri e dei santi. No; essa è in mano di Dio. Gli empi sono semplicemente degli strumenti di cui egli si serve per forgiare tranquillamente il suo capolavoro. Cosicchè la frenesia, la rabbia furente, sono soltanto dalla parte dei persecutori, veri servi della gleba; tanto l’artefice, che il suo vivente capolavoro, assorti nell’ideale che proseguono, sono immersi invece nella più profonda pace, quella appunto che si richiede per tutte le opere ardue e di genio.
La preghiera che serve di preludio all’anafora, è la seguente: «Eccoti, o Signore, quest’oblazione, qual pegno della nostra devozione: tu deh! l’accogli in onore di tutti i tuoi santi, e fa sì che anche a noi sia salutare».
I Sacramentari medievali oggi assegnano questo prefazio: «…Vere dignum… aeterne Deus: et clementiam tuam suppliciter obsecrare, ut cum exsultantibus Sanctis in caelestis regni cubilibus gaudia nostra subiungas. Et quos virtutis imitatione non possumus sequi, debitae venerationis contingamus affectu, per Christum etc.».
L’antifona per la Comunione è tratta dall’odierno Vangelo delle Beatitudini. Il mondo con sete insaziabile anela a star bene: ecco; la stessa eterna Verità insegna agli uomini le vie di questa felicità, quando sull’alto d’una montagna bandisce come il decalogo della felicità. Beati son quelli che hanno puro l’occhio del cuore, perché discerneranno Dio; beati quei che conserveranno inalterata pace, giacchè in questo si faranno conoscere per veri figliuoli di Dio, autore della pace; beati quei che a motivo della virtù sostengono persecuzione, perché in cambio della gioia e della vita di qua, conseguiranno di là la vita eterna e gioia imperitura.
Ecco la colletta di ringraziamento: «Fa, o Signore, che mentre il tuo fedel popolo festeggia la memoria di tutti i tuoi Santi, questi lo assistano in Cielo colla loro incessante protezione».
Rileviamo oggi questa profonda parola colla quale la liturgia designa la Chiesa militante: il popolo fedele. Il popolo cioè che procede innanzi nel suo cammino all’eternità, coll’occhio e col raggio della fede. Qual’è il merito di questa fede cattolica, creduta, ed incessantemente vissuta, senza della quale nessuno può arrogarsi con lealtà il titolo di fedele? Fides quid tibi praestat? – domanda ancora oggi la Chiesa ai catecumeni. – E questi rispondono: vitam aeternam.

(Card. A. I. Schuster, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano, vol. IX, pp. 76-79)

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San Bernardo, Della miseria umana (parte II)

(continua da: https://cattomaior.wordpress.com/2014/10/18/san-bernardo-della-miseria-umana-parte-i/)

Ciò che tu fai senza Dio, tutto è malizia e vanitade. però che niente è bene senza il sommo bene. Grande miseria d’uomo è non essere con lui, senza il quale non può essere. Vedi uomo misero, il quale alla imagine e figura di Dio se’ creato, e per ismisurata caritade del nostro Signore Gesù Cristo da morte eternale con morte vituperosa liberato se’ e ricomperato; e a vedere la chiaritade del sommo Dio se’ chiamato, per la sua inestimabile misericordia. Misero uomo, riconosci questo tuo onore: intendi la dignità e l’altezza tua, che da tanta maestade se’ onorato. Però che lo eterno Dio e immenso ti creò, e formotti e ricomperotti, e hatti invitato alle sue nozze. Grande onore è questo, o uomo, e grande amore. O uomo, conosci l’onor tuo: corri, rendi grazie allo invitatore tuo; acciò che forse volendovi andare ingrato, impacciato o per villa, o per buoi, o per moglie, il Signore adirato non comandi che tu sia successo, e in perpetuo ti chiuda la porta della eternale vita. Conosci adunque, o uomo, l’onore tuo, ed onora il creatore tuo. Ma ohimè! oggi si può dire direttamente dell’uomo: l’uomo, essendo in onore, non intese: assomigliato è a’ giumenti, e simile fatto è a quegli. In verità degno e giusto è, che colui che non vuole essere compagno con li angeli, sia compagno colle bestie. E colui che ha distrutto in sé la imagine di Dio, degna cosa è, che la imagine e similitudine delle bestie s’accosti a lui. Conosciti dunque, misero uomo, conosciti che tu se’ migliore degli uccelli, e più degno che ogni animale. Non volere somigliarti a’ giumenti, che non hanno senno, e che non pensano, se non che della presente vita. Che solo le cose carnali e corporali desiderano; le cose terrene e temporali amano; però che l’altre non conoscono. O uomo, deh non ti sottoporre alla carne; non essere amatore del mondo. Non sostenere d’essere figliuolo del diavolo, per amore del potentissimo, e savissimo e incomprensibile padre, altissimo Dio tuo: per lo ammirabile nome dello eterno Iddio, non ti fare avversario e micidiale di te: per amore del benignissimo Iddio, non ti fare di lui nimico e contrario: per lo unigenito benigno suo figliuolo Cristo nostro Signore, non ti fare compagno de’ dimoni, e della arsura del fuoco eterno; che se’ ricomperato del prezioso sangue dello agnello immaculatissimo. Deh! non avere per nulla tanto prezzo, il quale il figliuolo di Dio degnò di pagare, acciò che tu non sii involto ne’ sempiterni incendii. Allora avrai grande pentimento, ma senza rimedio. Allora sosterrai dolore da non poterlo pensare, ma senza fine: sarai pieno di tormenti, e mai non sarai alleviato. Però che chi non piagnerà, quando è tempo di piagnere, piagnerà eternamente, ma senza frutto. Torna dunque a te, o uomo; torna alle cose spirituali; torna ai gaudii eterni e celestiali; torna misero, torna al figlio: non tardare di convertirti a colui, che per sua potenza t’ha fatto; per sua sapienza t’ha ricomperato; per sua inenarrabile bontà ti ha chiamato a sè, e aspettati continuamente, acciò che da lui sia coronato. Or che cerchi fuori di lui? che desideri senza lui? che ti piace senza lui? Egli ha fatto ogni cosa, egli ha ogni cosa, egli è ogni cosa. Ogni bene, che tu desideri, ogni plenitudine, che cerchi; ogni cosa dolce e dilettevole, che tu domandi, tutto troverai in lui, e in lui userai. Se tu ti vuogli rallegrare, egli è allegrezza. Se ti diletta di combattere, egli è palma. Se vuogli essere coronato, egli è corona. Se desideri di vincere, egli è vittoria. Se potenza desideri, egli è potenza. Se tu cerchi fortezza, egli è fortezza. Se giustizia vuoli avere, egli è giustizia. Se tu ami sapienza, egli è somma sapienza. Se vuogli carità, Iddio è carità. Se desideri ricchezze, egli è ricco. Se vuoli avere bellezza, egli è somma bellezza. Se addomandi plenitudine, egli è abbondanza d’ogni bene. Se tu desideri gloria e onore, Dio è somma gloria, e sommo onore. Se pace vuogli, egli è eterna pace, la quale avanza ogni senso. Sì che, se bene cerchi, troverai che Dio è sommo bene, e ogni bene. Anzi egli è tutto desiderabile, tutto dolce, tutto amabile, tutto soave, tutto dilettevole. Egli è sempre, e tutto in ogni luogo. Dovunque tu starai con lui, starai bene, e bene averai. E dovunque tu starai senza lui, starai male, e male averai. Sottomettiti dunque tutto a colui, che tutto t’ha fatto; da cui hai ogni cosa; per la cui grazia tu vivi ogni punto. Sempre servi a colui, che non ti lascia cadere in ogni peccato, e che non permette, che tu faccia tutti i mali, che volentieri faresti. Sempre servi a colui dunque, che non patisce nè sostiene, che tutte le cose ti nocciano, le quali volentieri ti nocerebbono, cioè demoni, infermità, uomini, bestie, e simile tutte l’altre cose che possono nuocere. Tutto sempre ama il Padre, e il Figliuolo, e lo Spirito Santo, solo vero e sommo Iddio, il quale egli sommamente t’ama. Piaccia dunque a lui sempre la volontà tua, e la sua piaccia a te. Sempre t’accorda a lui. Sempre seguita la voluntà sua in tutte le cose; il quale sempre vuole il bene tuo, il quale di null’altra cosa cura, se non della salute tua; la cui voluntà sempre a farti misericordia è benevole e apparecchiata; e sempre si diletta a far bene a te. Deh! dimmi, non se’ tu a te medesimo grande amico? Più amico t’è Iddio, che tu medesimo a te; e più t’ama che tu medesimo. Or puoi tu credere altrui aiuto essere più forte, o altrui consiglio più utile? Manifestamente erri, se ciò credi. Sciocchissimo, e pazzissimo se’: ch’e’ tuoi desiderii, o gli altrui seguiti; e quegli di colui lasci, il quale è sempre amico dolce, e savio e piatoso consigliatore e salvatore; e sopra ogni cosa aiutatore forte, e potente; padre del futuro secolo, e principe di somma pace. Amen. (Della miseria umana. Sermone di San Bernardo volgarizzato nel buon secolo della lingua, pp. 14-19)

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San Bernardo, Della miseria umana (parte I)

Ho il piacere di presentare al lettore il sermone De miseria humana di San Bernardo nel volgarizzamento compiuto nel XIV sec. da un anonimo toscano e stampata per la prima volta nel 1832 da Giuseppe Manuzzi con l’aiuto del priore Domenico Bandini sulla base di diversi manoscritti collazionati in prima persona. Riporto questo breve testo, ottimo ausilio alla meditazione, mantenendone le specificità grafiche e ortografiche. Sanctus Bernardus Claraevallensis

Questo è uno Sermone, che fece S. Bernardo. O uomo, che d’anima razionale e umana carne se’ composto, ripieno di molte miserie: misero e miserabile; povero, a molte necessitadi sottoposto, deh! ritorna al cuor tuo. Perchè di fuori ti svii? che cerchi tu di fuori? perchè t’impacci negli studii carnali? perchè nelle cose basse e secolari? perchè nelle vanità d’involgi? dilettiti nelle cose basse? e dilunghiti dalle cose dentro e superne? ispanditi nelle cose di fuori, e in quelle dentro ti confondi? Quanto più al mondo t’appressi, tanto più ti dilunghi e parti da Dio. Quanto se’ più savio di fuori, tanto dentro doventi più sciocco. Quanto più in quelle cose, che sono di fuori vai vacando, tanto ti vuoti delle cose, che sono dentro da te. Quanto maggiormente tu se’ sollecito nelle cose temporali, tanto più nelle spirituali se’ mendico. O uomo! perchè è ciò, che tu ordini tutte le cose, e te medesimo non vuoi ordinare? Perchè in tutte le cose se’ savio, e in te medesimo se’ sciocco? Perchè tutte le cose di fuori t’ingegni di far buone, e te medesimo lasci esser reo e inutile? Dorme in te lo spirito di Dio: perisce in te la ragione; vive in te il sentimento. Spegnesi in te lo spirito di Dio: signoreggia in te la carne. Bolle in te l’amore delle cose terrene. Ami il mondo, e abbandoni Dio. Di tutte le cose ti ricordi, e te medesimo dimentichi. Le cose che sono sopra la terra desideri ed ami; e nelle celestiali non hai amore nè affetto. Appressiti alla morte, e dilunghiti dalla salute. Corri al demonio, e partiti da Dio. Dunque ritorna al cuore tuo, o prevaricatore; però che Dio parla pace a tutti coloro, che tornano al cuore. Tutte le cose del mondo t’ha Iddio date, e tu per queste lasci Dio. Tutte le cose per te fece Dio, e tu per tutte le cose, che t’occorrono lasci Dio; e però tutte le cose abbandoneranno te. Per le creature tu lasci il creatore: e però contro a te tutte le creature si leveranno. Però che offendendo il creatore, offendi tutte le creature; e tutte le creature, che sono fatte in tuo ministerio e utilitade, si convertiranno in giudicio ed in vendetta di te. E saranno a te guai senza fine; però che non volesti aver bene senza fine. Adunque riconosci, misero uomo, riconosci te medesimo. Ripensa che niente fosti. Attendi come reo e vile tu sei, pensi che farai. Piagni, o uomo misero, piagni senza mezzo i peccati tuoi. Disfà colle lagrime le tue malizie, e le tue miserie; però che per propria voluntade hai peccato. Dispiacciati sopra tutte le cose, dispiacciati con tutto il cuore, e continuamente ti dispiaccia, che hai avuto ardire di offendere il Signore della divina maestade, che ha podestade d’ogni carne, e di mandare il corpo e l’anima nello inferno. Inamarisca in te il cuor tuo amarissimamente; che agevolmente, volontariamente, e con diletto hai offeso il sommo padre Dio, d’incomprensibile e d’ineffabile bontà e misericordia, il quale è benigno e misericordioso eziandio sopra gli ingrati e rei. Dispiacci tutto a te, acciò che tu possa piacere a lui, che è sommo bene, e vero Dio. Al quale niuno piace, se non chi a se medesimo dispiace. E niuno a lui dispiace, se non chi a se medesimo piace. Però che Iddio distrugga l’ossa di coloro, che piacciano agli uomini. E quella cosa, che è esaltata appo gli uomini, è abbominevole appo Dio. Maraviglia è di te, uomo misero! Tutto se’ desideroso, tutto pronto, tutto acconcio, tutto mobile, tutto sollecito al male. Al bene tutto duro, tutto pigro, tutto pauroso, tutto sciocco, tutto se’ incredulo e ribello. E donde ti viene questo, se non dalla carne, la quale tu ami? Però che tu seguiti la carne, tu fai le opere della carne, e con quella sarai punito. Il frutto della carne tua è la lussuria, la concupiscenza, invidia, infermità, fragilità, dolore, vermine, corruzione putente, e puzzolente puzzo. Tu se’ tenebre d’ignoranza, in tanto acciecato, che tu non sai dove tu se’; non attendi dove tu vai; non t’avvedi del fatto tuo; non intendi le insidie del nimico, e le ingannese sue frode. Tu se’ negligente, e non pensi dove tu dei andare. Misero! non sai la via, e non ne cerchi. Però che grande via ti resta. Sollecitamente domandi il cibo, vestimento, e riposo, e tutte le necessitadi della carne, quando n’hai bisogno. Della vita, e salute dell’anima tua sempre se’ tiepido, e non ne curi, bene che sempre n’abbi bisogno, come pieno d’iniquitadi. Misero uomo! bene curi dove pasci il misero corpo e vestilo; e curi come tu soddisfaccia a’ diletti della carne, la quale di qui a pochi dì sarà pasto di vermini. Corri e discorri; vegghi e non pigli sonno con gli occhi; acciò che tu empi il ventre de’ tuoi desiderii. Deh per l’anima tua, che dee essere presentata in cielo, perchè non se’ sollecito, acciò che la presenti di buone opere, vestila di virtudi, acciò che non appaja la confusione della nudità sua? O uomo misero, sempre cerchi d’empire il ventre, perchè non pasci l’anima affamata? Del vaso dello sterco sempre curi. Pasci la sterile, e quella che non partorisce, e l’anima affamata non pasci di bene. Guai a te, che l’anima tua di fame muore in te. Guai a te, e guai a te sarà, che dai quello, che non è di Cesare, a Cesare; e non rendi quello, che è di Dio, a Dio. e però maledetto se’ da Dio, e confuso da lui. Vedi, misero uomo, vedi che tutto è vanitade, tutto è stoltizia, tutto è pazzia, ciò che tu pensi, ciò che vuogli, ciò che parli, ciò che fai in questo mondo, fuori che quello che fai in Dio, e per Dio, e a onore di Dio. (Della miseria umana. Sermone di San Bernardo volgarizzato nel buon secolo della lingua, pp. 9-14)

(Continua: https://cattomaior.wordpress.com/2014/10/23/san-bernardo-della-miseria-umana-parte-ii/)

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