La nozione errata di “mistero pasquale” – parte II

(continua da: https://cattomaior.wordpress.com/2014/04/15/la-nozione-errata-di-mistero-pasquale-parte-i/)

priest

Nella Messa del Novus Ordo, invece, la formula della Consacrazione del vino, letta dall’officiante ad alta voce in lingua volgare, recita: «Prendete e bevetene tutti: questo è il Calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me». E subito dopo il sacerdote dice ad alta voce: “Mistero della fede”. E il popolo risponde: «Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta». Si vede chiaramente che nell’Ordo Antiquus il “mistero della fede” che veniva rinnovato era unicamente quello del Sangue di Cristo sparso “per voi e per molti” per la remissione dei peccati; era il sacrificio della Croce che ci procurava misericordia (propitiatio) per i nostri peccati e che veniva rinnovato in modo incruento per noi nel mistero della Transustanziazione, prodotta dalla Consacrazione del sacerdote officiante.
Nel Novus Ordo, invece, il “mistero della fede”, che viene proclamato dopo aver annunciato la Morte del Signore per la remissione dei nostri peccati, appare collegato soprattutto alla sua Resurrezione e alla sua venuta, non meglio specificata. Dovrebbe essere la Parusìa, il ritorno di Cristo nella Gloria alla fine dei tempi, l’Avvento che concluderà la vicenda di questo mondo con il Giudizio universale. Dico “dovrebbe” perché dal Vaticano II in poi l’idea del Giudizio Universale, con la susseguente divisione eterna dell’umanità in eletti e reprobi, sembra praticamente scomparsa dalla pastorale della Chiesa, unitamente a quella del giudizio individuale che attende l’anima singola subito dopo la morte (i due giudizi sono ricordati con chiarezza nell’art. 48.4 della Lumen Gentium, anche se si tratta di un’affermazione che resta isolata, mentre nell’art. 3 della Dichiarazione Nostra Aetate si considera la fede dei mussulmani nel loro giudizio finale addirittura come identica alla nostra, quando la loro escatologia contempla il ritorno di Gesù, “profeta dell’islam”, per giudicare, dal minareto della grande moschea di Damasco, tutti i cristiani, colpevoli di averlo adorato come Figlio di Dio, mandandoli tutti all’Inferno!). La modificazione della formula della Consacrazione del vino, pur mantenendo essa la dizione corretta (nell’Institutio in latino del Novus Ordo) del Sangue “versato per voi e per molti in remissione dei peccati”, non introduce tuttavia nella Consacrazione stessa e quindi nella Messa la novità inaudita di un ottimismo escatologico, che fatalmente ha finito con il prevalere sul significato propiziatorio della Messa? Tra l’altro, l’aver aggiunto «Fate questo in memoria di me» nella formula della consacrazione del vino, mentre prima era detto in segreto dall’officiante dopo la formula stessa, introduce direttamente nella Consacrazione il motivo della Messa come “memoriale”, cosa che pure è, come si è detto, ma subordinatamente alla sua natura di Sacrificio propiziatorio, rinnovato in modo incruento dal sacerdote che agisce in persona Christi. E che l’ottimismo escatologico sia sin dall’inizio prevalso non lo dimostra anche l’arbitrario mutamento del “molti” in “tutti”, attuatosi in quasi tutte le traduzioni in volgare, con la tolleranza attiva della Santa Sede, sino al giusto ripristino del “per molti” ordinato dal Pontefice Joseph Ratzinger, S. S. Benedetto XVI, non si sa però con quanta prontezza eseguito dai sempre “creativi” artefici della presente liturgia in vernacolo.
Anche la formula della consacrazione del pane è stata variata. Il Novus Ordo, infatti, recita: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi». Il rito romano antico invece: «Hoc est enim Corpus meum», «Poiché questo è il mio corpo». Il mutamento non sembra a prima vista significativo. È comunque parallelo al “Prendete e bevetene tutti” aggiunto alla consacrazione del Calice.
Bisogna chiedersi, di fronte a queste variazioni del nostro bimillenario rito se la Messa del Novus rispecchi in toto la dottrina cattolica? La domanda può sembrare scandalosa eppure mi sembra del tutto legittima perché, come sottolineano gli Autori, la conseguenza di questa nuova teologia della Messa è stata appunto «l’oscuramento dell’aspetto sacrificale nel messale promulgato da papa Paolo VI»; aspetto «vieppiù smarrito nel corso del tempo a causa della creatività dei celebranti» (p. 207).
Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla Passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al Banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà [ma questa non è la concezione protestante, della Messa come “cena”, “banchetto” gioioso nel quale il cristiano celebra la propria “libertà”?]. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Cristo, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio (p. 208).
Si tratta di un rito, quello nuovo, che (annoto) sembra fatto apposta per alimentare l’antropocentrismo ovvero la superbia dell’uomo. È questa superbia a produrre l’«indifferenza alla Croce, all’eucaristia e alla presenza reale di Cristo sotto la specie del pane e del vino», giustamente lamentata da Gnocchi e Palmaro, testimoniata da numerosi episodi. […]
Ma tutta questa deriva liturgica non chiama in causa anche il Concilio? Secondo gli Autori, che si richiamano espressamente a monsignor Gherardini, è impossibile considerare innocente la riforma liturgica promossa dal Concilio con la costituzione Sacrosanctum Concilium. Essa ha sì riaffermato concetti tradizionali, tuttavia «i neomodernisti disseminarono il testo di passaggi che permettevano di leggerlo e applicarlo in chiave eversiva» (p. 213). E ricordano (pp. 212-219) come essa, pur riaffermando la centralità dell’uso liturgico del latino, abbia nello stesso tempo ammesso la possibilità di numerose eccezioni a favore della lingua volgare (Sacrosanctum Concilium 36 §2); e come il principio stesso dell’innovazione liturgica vi sia in realtà ammesso in modo abbastanza facile, all’art. 21.
Da parte mia, ricordo di nuovo che proprio a Sacrosanctum Concilium 22 § 2 e 40 si deve l’introduzione dell’infausto principio della “creatività” in liturgia, sotto forma iniziale di “esperimenti” da approvarsi con la dovuta cautela, si capisce, e sotto il controllo formale della Santa Sede (controllo ridottosi spesso nei fatti alla semplice presa d’atto). Ma la Sacrosanctum Concilium, a ragione (e non bisognerebbe dimenticarlo) decisamente avversata in Concilio dal cardinale Ottaviani e da tutti i migliori esperti della Curia, ha insistito a più riprese sulla necessità di “semplificare” i riti (artt. 35, 50.2, 117-2) e di renderli “più facili”, “più comprensibili”, “più chiari” all’uomo del nostro tempo (artt. 21.2, 34, 59.2, 72, 77.1, 79.1, 90.2, 92), necessità giustamente mai ammessa in passato dal Magistero, custode dell’immutabilità del rito, inevitabile riflesso dell’immutabilità del dogma. Inoltre, pur auspicando il mantenimento del latino, essa ha aperto numerosi varchi all’uso del volgare, in applicazione del principio della sperimentazione (artt. 63, 65, 76, 77 e 78, 101, 113). E che dire della seguente delucidazione del significato della Domenica, giorno nel quale si celebra il “mistero pasquale”?
In questo giorno, infatti, i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio, che li “ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo dai morti” (1Pt 1, 3) (ivi, 106).
L’Eucaristia, ossia la S. Messa, in quanto “mistero pasquale”, qui è semplicemente un “far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore”! E il termine “transustanziazione” si trova nella Sacrosanctum Concilium o in qualsiasi altro testo del Concilio? La sua assenza dalla definizione giansenista della Messa provocò la condanna solenne di quest’ultima da parte di Pio VI nel 1794, in quanto definizione «perniciosa, infedele all’esposizione della verità cattolica sul dogma della transustanziazione, favorevole agli eretici», nella Costituzione Apostolica Auctorem fidei, che condannava in modo solenne gli errori dei giansenisti[n. 20: DS 1529/2629.].
(Paolo Pasqualucci, Cattolici, in alto i cuori!, pp. 71-77)

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